Torre S . Susanna, nella cappella di Sant’Antonio si rinnova il rito del pane
Fu «Sippuddu» Pinto a farla erigere nel 1940, dopo la guarigione miracolosa del figlio
Non dista molto la cappella di «Sant’Antonio» da Torre Santa Susanna. Il paese è lì, a pochi passi, con le sue ultime case cresciute a vista d’occhio negli anni dell’espansione urbana. Un chilometro o poco più separa l’abitato dal tempietto eretto per devozione al grande taumaturgo patavino nel 1940. Sulla strada per San Pancrazio Salentino, che fila dritta dritta in un mare di campagne, all’altezza di «Casa Vazia», Giuseppe Pinto pose la prima pietra sciogliendo in tal modo il voto per la grazia ricevuta: la vita salva al figlio sedicenne che contrasse il tetano. L’uomo, un contadino che si dava da fare nella negoziazione dei prodotti della terra (comprando e vendendo anche animali alle fiere), da solerte padre di numerosa famiglia (come le più allora) si spese per ringraziare a dovere il santo che «aveva sulla testa del letto», in figura domestica sempre pregata.
«Sippuddu» (così era conosciuto da tutti, per via della sua bassa statura), aggrappandosi alle corde della fede, implorò l’intervento del dispensatore delle 13 grazie. La credenza popolare si rivelò d’aiuto, per il suo ragazzo che stava più di là che di qua.
La messa di ringraziamento, la prima, fu sentitissima ma non bastava: bisognava andare oltre; pertanto, il papà, non pago, attaccando l’asino al carretto (quello delle mercanzie), si portò a Lecce: una distanza che richiedeva il viaggio di un’intera notte. La meta era la bottega del cartapestaio, che lo accontentò vendendogli una statua di sant’Antonio non troppo costosa, di media grandezza. Andava bene, faceva al caso. L’intenzione di onorare il miracoloso fraticello fu presto cosa fatta; pagato il dovuto, con il simulacro imballato (con le buche in agguato non si scherzava!) fece ritorno a casa (pregustando la contentezza dei familiari). L’opera di fine artigianato, dal formato abbordabile, rimase nello stanzone giusto il tempo necessario per porla in piedistallo d’altare, nell’aula liturgica che stava venendo su, bella e delicata, nel campo acquistato coi sudori d’una vita.
Fece la sua figura (eccome se la fece) quel manufatto apprestato da un nome di grido (esposto in vetrina di città blasonata), che per sentito dire aveva fama che travalicava i confini di provincia. Quale miglior «biglietto da visita» per i fedeli che, a partire dai tempi di guerra, ogni 13 di giugno (ricorrenza di calendario del Doctor evangelicus, divenuto tale per proclamazione di Pio XII nel 1946), processionalmente si portavano alla chiesetta extraurbana.
Oggi, però, che l’originale del santo non è più al suo posto (lo rubarono, i maledetti), la copia comunque sopperisce alla bisogna. La custodiscono i discendenti del devoto; la ricollocano nel dì della festa, lasciandola giusto per le ore dell’adorazione di coloro che non dimenticano l’appuntamento antoniano.
Sullo spiazzo, che funge da sagrato (tenuto a meraviglia, con l’erba rasata e gli alberi d’ombra che fanno cornice), il prete celebra ora come allora. Certo, non è facile reclutarlo per la funzione, ma alla fine la benedizione si fa, la si impartisce con grande soddisfazione dei parenti di Giuseppe Pinto. Essi, come insegnato dal loro indimenticato congiunto, offrono ai presenti il pane di sant’Antonio, che non è più quello dei poveri, ma è apprezzato lo stesso (anche dai ricchi) per il suo significato profondo, di attaccamento alla tradizione, che si tiene viva lasciando giorno e notte la porta aperta della chiesina, amorevolmente ripresa nelle sue linee architettoniche.
Si respira – verrebbe da dire – una sorta di seraficità tanto nel dentro quanto nel fuori del luogo sacro. Condividere la preghiera facendo gioiosa comunità (popolo di Dio «in trasferta» dal paese) con un panetto sbocconcellato per rispetto del posto (gli altri pezzi si incartano per casa…), non credete possa essere un viatico per affrontare una camminata che alfine fa bene anche allo spirito? Provare non è una penitenza!