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Da San Lorenzo a Crepacore, sfiorando Oria la fumosa. Quanti tesori

Da San Lorenzo a Crepacore, sfiorando Oria la fumosa. Quanti tesori

Fonte: senzacolonnenews.it

Muoversi a piedi, specialmente quando le distanze non sono proprio minime, nell’antichità e, direi, anche all’epoca dei nostri nonni, era la norma, mentre ora, tranne rari casi di assoluta necessità, è visto quasi come un qualcosa di stravagante, specie quando le mete prefissate si potrebbero raggiungere facilmente con qualsiasi altro mezzo di locomozione che non siano le suole delle proprie calzature.
Eppure lo sanno anche i muri che camminare fa bene alla salute, aiuta a mantenersi in forma ed è un vero toccasana specie per chi è costretto, per lavoro o altre contingenze, ad una vita sedentaria.
Da qui la mia scelta di continuare a prediligere le camminate a piedi, anche fuori città per conoscere ed assaporare, al ritmo lento che solo il proprio passo cadenzato può dare, luoghi e/o monumenti immersi nella natura e pregni di storia.
Oramai la tattica che prediligo è quella di scegliere due o tre mete da visitare, avvicinarmi in auto ad uno dei posti prescelti, disegnando un itinerario il più possibile lontano dalle strade principali, non solo per andare a vedere anche la meta successiva, ma anche per gustare, passo dopo passo, come facevano gli antichi viandanti ed i pellegrini, il viaggio vedendo da vicino e con i propri occhi tutto quanto il buon Dio, ma anche la mano dell’uomo nel corso dei secoli, ci ha messo a disposizione, perché ne facessimo buon uso.
Cominciamo dalla fine per dire che la tappa ultima dell’itinerario che questa volta voglio condividere con i lettori è la Chiesa di San Pietro di Crepacore, in agro di Torre Santa Susanna, un edificio di culto bizantino edificato intorno al VI-VII secolo dopo Cristo sulle rovina di una villa rustica di età romano-imperiale, nei pressi del Limitone dei greci, la muraglia che ha separato per qualche tempo le popolazioni assoggettate al dominio dei bizantini da quelle sottoposte ai longobardi.
Va detto subito che questo monumento, appartenente in passato al prof. Carlo Murri, valente medico mesagnese, fu da questi generosamente donata, nella seconda metà degli anni novanta, al Comune di Torre Santa Susanna e, dopo essere stata sapientemente restaurata grazie all’intervento della Soprintendenza alle Belle Arti, è visitabile contattando la Pro Loco, per cui, dopo che tante, troppe volte, mi son dovuto lamentare per le condizioni di abbandono in cui sono tenuti molti nostri beni monumentali, in questo caso, al contrario, c’è solo da elogiare la Civica Amministrazione per aver fatto rinascere e reso fruibile al pubblico questo bel monumento, ormai conosciuto oltre i confini della regione ed i suoi bellissimi affreschi; su tutti quello dell’abside con la rappresentazione dell’Ascensione al cielo di Gesù tra gli arcangeli e gli apostoli.
Inizialmente avevo pensato di portarmi in auto fino a Mesagne, nei pressi di un altro tempietto risalente a quello stesso periodo, quello dedicato a San Lorenzo martire e, da lì, continuare a piedi ai margini della Strada Provinciale 69 che conduce a Torre Santa Susanna, dove dopo poco più di 8 chilometri ed un’ora e mezzo di cammino sarei giunto alla meta.
Fa un effetto strano vedere quella che era stata concepita quindici secoli addietro – e fino a qualche decennio fa lo era ancora – come una chiesetta di campagna, tant’è che il nome originario era di San Lorenzo fuori le mura, si trova ora ad essere circondata da edifici ed auto, alle spalle di un grosso centro commerciale.
Anche questo edificio sacro, composto da tre navate e sormontato da una cupoletta, fu costruito intorno al VI secolo dopo Cristo su una preesistente costruzione romana, ma, in questo caso, secondo alcuni studiosi, si trattava di un tempio adibito al culto, quello pagano di Giano Bifronte, una delle divinità latine più antiche, tant’è che non ha, a differenza degli altri dei pagani, un corrispondente greco che siede nell’Olimpo; risale cioè a prima che le due culture si incontrassero. Per gli antichi viandanti, quelli che percorrevano l’antico tracciato della via Appia Antica per giungere da Roma a Brindisi, significava, dopo aver percorso quasi seicento chilometri, essere in prossimità del traguardo, distante appena tre ore di cammino, una inezia per quei tempi!
La peculiarità di questa chiesetta è che in essa, per mille anni, fino al XVI secolo, fu praticato il culto greco-cristiano ma, una volta abbandonato questo culto, per oltre quattro secoli è stata del tutto trascurata dalle autorità ecclesiastiche e ridotta a poco più di un cumulo di sassi; a partire dagli anni sessanta del secolo scorso e, poi, in maniera più decisa nel 2000, grazie al decisivo apporto del locale Lions, è stata completamente restaurata. Peccato che è tenuta pressocchè sempre chiusa, per cui mi accontento di scattare qualche foto dall’esterno e poi, anche per sfruttare il tempo risparmiato per la mancata visita al suo interno e cambiando l’iniziale programma, anziché dirigermi subito a piedi verso il tempietto di Crepacore – essendo la Provinciale 69 oltre che pericolosa per via dell’intenso traffico veicolare, da me ben conosciuta per averla percorsa una infinità di volte in auto e so che non presenta particolarità paesaggistiche degne di nota – riprendo la macchina e, passando dalla strada che porta al Santuario di Cotrino, imbocco la strada interna che porta verso Oria.
Dopo circa 4 chilometri un vecchio cartello indica che sulla destra vi è la “Chiesa Gallana”, lo stesso cartello contiene anche una indicazione assolutamente errata dal punto di vista storico, poichè segnala il monumento come se fosse del XII secolo.
In realtà si tratta del Santuario di Santa Maria di Gallana, sorto esattamente lungo il tracciato originario della via Appia Antica, nell’area di una villa rustica romana, su cui fu edificata, intorno al VI secolo, la parte più antica della chiesa in cui l’abside è costruita in mattoni e tufi, mentre la navata in resistentissimo calcestruzzo, il che dalle nostre parti rappresenta quasi una novità. Ma non dobbiamo dimenticare che furono proprio gli antichi romani ad inventare ed utilizzare per molte opere pubbliche un composto di cenere vulcanica, calce (ossido di calcio), acqua di mare e grumi di roccia vulcanica che, in precise proporzioni ed opportunamente amalgamati formavano un calcestruzzo – nulla a che fare con quello attuale molto più friabile e non destinato a durare nel tempo – che diventava sempre più resistente col passare del tempo e capace di resistere anche ai barbari, dal momento che, a differenza degli altri materiali edilizi, questo composto cementizio non poteva essere saccheggiato per essere utilizzato per altre costruzioni.
Nel IX secolo la Chiesa della Madonna di Gallana doveva avere già l’aspetto attuale, con più vani di forma quadrata e la copertura a “trullo”.
Parcheggio l’auto a pochi metri dal Santuario e mi avvicino a piedi, sperando di poterlo visitare o, almeno, potermelo godere a 360 gradi. Un signore molto garbato che abita in un casale posto dirimpetto, mi avverte dal balcone che la chiesa è aperta solo in agosto e che per visitarla fuori periodo occorrerebbe rintracciare un certo Luigi che, gentilmente, si mette a disposizione dei visitatori. Per il resto, ad eccezione del portone di ingresso principale, che è sulla strada, i restanti lati del monumento sono inglobati in una proprietà privata, come anche proprietà privata pare che sia uno dei due ingressi della chiesa e parte dei locali interni.
Non avendo sufficienti indizi per rintracciare il sig.Luigi, mi accontento anche stavolta di fare qualche scatto esterno e girare intorno alla fitta recinzione della proprietà per intravedere il resto del monumento che, lo voglio evidenziare, è di estrema importanza sia dal punto di vista storico che artistico ed architettonico.
Non è assolutamente mia intenzione polemizzare con il privato, anche perchè, molto probabilmente, è grazie alle famiglie che l’hanno posseduto per secoli che il santuario è stato preservato dai saccheggi e dalla rovina, però, essendo ora per la sua massima parte di proprietà pubblica ed essendo state spese ingenti somme per il suo restauro, sarebbe opportuno renderlo fruibile al pubblico, non solo nel limitato periodo delle solennità e delle sagre di agosto.
Fermo restando che alla vigilia di ferragosto, puntuale, mi presenterò all’uscio della Chiesa Gallana, lascio l’auto nei pressi di uno spiazzo dove c’è un grosso tabellone turistico con i loghi della Comunità Europea e della Regione Puglia, che indica con precisione l’itinerario da seguire per portarsi da lì proprio alla Chiesa di San Pietro in Crepacore, la mia meta finale. Poco distante un cartello in legno su cui è incisa la direzione da seguire per giungere, in bicicletta, dopo 14.010 metri a destinazione.
Pur non avendo a disposizione una due ruote, bensì due collaudate gambe con due grossi piedi, imbocco la stradina e, di buona lena, la seguo, incurante del tempo che impiegherò per giungere al traguardo, sono appena le 10,00 del mattino ed il fatto che non piova e la temperatura è prossima ai 15°, di questo periodo è già una gran bella cosa.
Per oltre un chilometro mi ritrovo alla mia destra la massicciata della ferrovia ed alla mia sinistra campi ben coltivati e begli alberi di Ulivo; ad un certo punto, mentre la ferrovia prosegue diritta la sua corsa, ecco che in tutta la sua mistica ed incredibile bellezza, dopo un curvone sopraelevato, appare Oria, la fumosa: una distesa di erba verde parte dai miei piedi e copre tutta la vallata e in fondo, sul più alto dei cinque colli (il colle del Vaglio) su cui sorge la città, imperioso, il Castello Svevo che fu di Federico II.
Oria è probabilmente la città più antica della penisola salentina; fu capitale politica della Messapia quando Brindisi ne era il braccio armato ed attorno alle sue mura antiche, molto precedenti al Castello è sorta una leggenda che spiegherebbe perché vi è sempre nebbia attorno alla città, da cui i detti popolari “Oria fumosa” e “Oria fuma e Francavilla guarda”.
Fu una madre disperata, alla quale era stata portata via la figlioletta per bagnare, come aveva ordinato un oracolo, col suo sangue innocente le fondamenta delle mura per rendere invincibile la città, a lanciare una feroce maledizione: “Ut vos fumigant, Urria, sicut cor meum desperatis fumans” “Possa tu fumare Oria, come fuma il mio cuore disperato”; probabilmente la povera donna avrebbe voluto, con tale maledizione, che Oria fosse devastata da un incendio, ma buon per gli oritani che il tutto si limitò ad una spruzzata di fastidiosa e persistente nebbiolina!
Continuo la camminata attraversando la Provinciale 71, imbocco una stradina vicinale che passa sotto le enormi tubature sopraelevate dell’Acquedotto che rifornisce la città e mi immergo nella bella campagna messapica.
Superata la Masseria Terra di Marina, sono quasi a metà strada, con qualche minuto di anticipo rispetto alla tabella di marcia prevista; all’improvviso appaiono ai miei occhi i primi di una lunga serie di ulivi letteralmente inscheletriti dalla Xylella ed il paesaggio diviene quasi spettrale, tiro dritto nella stradina stretta fra i muri a secco, quando giungo ad una cappella votiva di discrete dimensioni che ritrovo alla mia destra subito dopo la cancellata di una villa in cui un molosso bianco fa buona guardia. Incastonati nel muro dell’edificio sacro riconosco i busti di San Cosimo e San Damiano mi ricordano che siamo ancora vicini ad Oria, la città dei Santi Medici, sede di un grande santuario a loro dedicato che, in Puglia, per numero di fedeli e visitatori è secondo solamente a quello di padre Pio a San Giovanni Rotondo.
Riprendo a muovere i miei passi e, attraversata la Provinciale 70, proseguo su un viottolo che attraversa un sofferente oliveto, una vera e propria terra di nessuno ammorbata oltre che dal batterio killer anche da una incredibile quantità di rifiuti accatastati in ogni dove fino al bordo di una vallata che riconosco essere quella dove scorre il Galesano, un fiume, oggi ridotto ad un canale, che in passato dava vita ad una grande palude ora quasi del tutto bonificata. Ormai la meta è vicina, i piccoli fabbricati ai margini delle stradina sono delle lamie in pietre della forma tipica dell’architettura rurale torrese
Ancora qualche minuto e sbuco sulla provinciale 69 a non più di mezzo chilometro dalla suggestiva chiesa di San Pietro in Crepacore, di cui tanto bene ho detto all’inizio di questo racconto.
Meno male che ho avuto l’accortezza di impegnare un amico per riportarmi alla macchina, posteggiata a 14 chilometri di distanza, perché altre tre ore di cammino, con tutta la buona volontà, difficilmente i miei piedi ormai fumanti come e più della fumosa Oria, sarebbero riusciti a reggerle.

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