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LA FRISELLA SALENTINA HA RADICI ANTICHISSIME.

LA FRISELLA SALENTINA HA RADICI ANTICHISSIME.
Fonte : La Gazzatta del Mezzogiorno

Secondo la leggenda la ricetta fu portata in Italia da Enea quando sbarcò sulle coste salentine di Porto Badisco; le prime fonti storiche documentate, invece, si registrano ai tempi delle Crociate, quando i cavalieri che salpavano dai porti pugliesi alla volta della Terra Santa si servivano di questo prodotto a basso costo per le faticose traversate. Si scrive “friseddhra” e attenti alla pronuncia: quella corretta, con il cosiddetto suono cacuminale invertito “ddhr”, è solamente salentina, sarda, svedese, hindi, norvegese, giavanese, kannada e nihali (quest’ultimi sono idiomi indiani). «Quindi, per i non appartenenti a queste lingue è senza dubbio consigliabile il termine frisella», spiega Pino De Luca, docente e autorevole gastronomo, nel «Saggio sulla Frisella ad uso di chi la usa senza averne mai avuto istruzioni». Diversamente da quanto fatto per la pizza, la frisella non vanta un disciplinare e per compensare questo vuoto l’autore salentino ha messo nero su bianco le caratteristiche della merenda assoluto marchio di salentinità. Nonostante prodotti similari siano in uso anche in Calabria e Campania – certamente differenti e utilizzati per lo più come street food dai venditori ambulanti – e nel nord barese si registri la presenza della cosiddetta “cialledda”, la friseddhra resta un prodotto tipicamente salentino. La parola frisa deriva dal latino fresa, participio passato del verbo frèndere, cioè digrignare i denti, triturare; eddhra deriva invece dal suffisso diminutivo “ella”; la frisella, quindi, «è un digrignare di denti assai bonario». Con una forma circolare che oscilla fra gli otto e i dodici centimetri, dunque più piccole di un pezzo di pane, le frise hanno un procedimento di preparazione ben preciso: «Si posano a coppia in una grande leccarda e s’infornano subito dopo il pane. Data la piccola dimensione cuociono in poco tempo e vanno sottratte al calore. Durante la prima cottura sviluppano la crosta dura e all’interno restano ancora morbide. Si versano nella caniscia (cesto di vimini) che porta sopra, ben teso, un filo di ferro zincato legato ai due estremi dell’imboccatura, nel quale si fanno passare le frise proprio sulla metà che congiunge i due anelli». Nascono così le friselle salentine nel racconto di De Luca, come tradizione vuole «con la parte liscia (lu te sutta) e quella irregolare e zigrinata (lu te subra)». L’impasto – farina, acqua e sale – è simile a quello del pane ma con il 10% in meno di acqua. Il lievito madre, circa 200 grammi per chilo di farina, è assolutamente obbligatorio. Il panotto viene lavorato a lungo sulla tavola e poi diviso in piccoli pezzi allungati e arrotondati a forma di serpente sottile da cui si traggono le ciambelle. «Con o senza il buco, a seconda dell’utilizzo che se ne intenda fare; col buco se sono da viaggio, perché in antichità si facevano attraversare da una cordicella e si appendevano al carro o alla cambusa in modo da essere arieggiate –; ricorda lo scrittore – quando si devono tenere a casa, invece, meglio senza buco, si risparmia spazio e vanno conservate nella cosiddetta capasa di terracotta». Un mito tutto da sfatare, poi, è la leggenda della frisella inzuppata con l’acqua di mare: «Oltre ad essere molto salata è anche amara, quindi contamina il gusto della frisa. Piuttosto, anche in barca, le frise vanno inzuppate con l’acqua dolce che non si disperde, perché con la frisa si mangia e si beve contemporaneamente». E se il condimento è libero, la bagnatura e la consumazione rientrano invece in un ferreo protocollo: «Bisogna immergerla per tre volte con rapida successione in una ciotola colma d’acqua fresca: dopo la terza immersione, la frisa va sollevata, lasciata scolare e appoggiata in un piatto fondo; si passerà successivamente al condimento con il seme di pomodoro fiaschetto, il sale grosso e una generosa dose di olio extravergine d’oliva». Un suggerimento, non fatevi strane idee su come mangiarla. «Rigorosamente con le mani! Usare la forchetta o, come mi è capitato di vedere, il cucchiaio, è semplicemente un oltraggio alla decenza», ha concluso ironicamente il gastronomo.

 

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